Ryan Murphy è stato il primo a raccontare i grandi fatti di cronaca statunitensi adattandolo al mondo dell’intrattenimento ed ai suoi ingranaggi che ben conosce. Il suo American Crime Story è servito a numerose altre serie tv uscite successivamente come guida per narrare quei fatti così tragici ed inquietanti che però hanno, in un modo o nell’altro, contribuito a cambiare la Storia di un intero Paese. Circeo (prodotto da Cattleya in collaborazione con Vis, Paramount+ e con Rai Fiction, per la regia di Andrea Molaioli) è una di queste serie: da un fatto di cronaca che non si può dimenticare è nata una serie che come sottotitolo potrebbe avere “Italian Crime Story”.
Circeo serie tv, la recensione
Flaminia Gressi, ideatrice della serie tv con cui Paramount+ debutta in Italia, ha scelto di raccontare il massacro del Circeo da una prospettiva che resta dentro la narrazione del presente raccontato ma che serve anche a dare uno sguardo più ampio al futuro che ne è scaturito. Un futuro fatto di battaglie, manifestazioni in piazza e richieste di diritti per dare la giusta difesa a tutte le vittime di abusi.
Ecco che, allora, Circeo abbandona subito quella che poteva essere la strada più facile, ovvero il racconto morboso di quelle terribili ore che videro Donatella Colasanti e Rosaria Lopez nelle mani dei loro aguzzini. Ciò che le due giovani devono subire viene solo fatto immaginare dalla sceneggiatura, chiarendo subito che la serie -dopo la premessa del primo episodio- si concentrerà su un altro, fondamentale aspetto di quel tragico episodio, ovvero quello giuridico.
Circeo non è il racconto del massacro, ma del processo che ne è seguito. E proprio il suo tono dal legal drama è chiaro da subito: non è un caso che ad affiancare Gressi e Viola Rispoli (quest’ultima head writer) nella sceneggiatura ci sia Lisa Nur Sultan, che ci ha deliziato nella primavera 2022 con Studio Battaglia, ambientato nel mondo di una famiglia di avvocatesse milanesi.
Il glamour del legal drama di Raiuno qui fa però spazio a testimonianze crude, alla paura che traspare dalle parole di Donatella (che rispettano quanto realmente accaduto nel 1975) ed alla volontà netta di farle diventare uno strumento per cambiare una legge. Circeo insiste infatti sulla necessità di modificare la legge contro lo stupro, fino ad allora considerato solo un reato contro la morale e non contro la persona.
È Tina Lagostena Bassi (Pia Lanciotti) a specificarlo molto bene, senza retorica, nel primo episodio: “serve una scintilla”, un caso di violenza che sappia attirare l’attenzione della stampa al punto da suscitare una reazione forte nell’opinione pubblica. Quella è la scintilla che lei e Teresa Capogrossi, personaggio di finzione interpretato da Greta Scarano, cercano, consapevoli che la Storia si fa (e si cambia) anche così.
Nel raccontare questa esigenza, però, non c’è mai cinismo, ma oggettività. La costruzione del caso, la sua preparazione nei dettagli, trasforma l’ottica della serie da semplice ricostruzione a racconto legal. E Circeo mostra così la sua natura estremamente moderna e contemporanea.
Anche per questo sembra si sia voluto optare per la narrazione dal punto di vista di un personaggio, quello di Capogrossi, non realmente esistito: permette di ampliare la visione del fatto ed adattarlo al senso che si vuole attribuire alla serie, ma facendolo circondare dai personaggi realmente coinvolti nella vicenda non si perde l’impronta realistica che era necessaria affinché Circeo mantenesse la sua credibilità.
In definitiva, l’operazione con cui Circeo è diventato una serie tv va lontano da quella che poteva essere quando il progetto è stato presentato: non un fatto di cronaca che deve essere rappresentato, ma un fatto di cronaca che diventa spartiacque tra un prima e un dopo. Un Italian Crime Story, appunto, il cui compito è ricordarci il ruolo dell’opinione pubblica nel definire le leggi che ci tutelano e che non è mai sbagliato far sentire la propria voce quando si rende necessario per un Paese fare dei passi avanti.